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Nascita di Venere

Autore:
Periodo:

1484-1485 circa


Committente / Collezionista:
Luogo:

Firenze, Galleria degli Uffizi


Inventario:

inv. 1890 n. 878


Link:

Gallerie degli Uffizi

Tempera su tela; cm. 184,5 x 285,5 (altezza originaria era probabilmente di cm. 207,5).
La Nascita di Venere è il più antico dipinto su tela di grandi dimensioni pervenuto in Toscana. In realtà i documenti d’archivio testimoniano l’uso di rivestire le pareti delle dimore più signorili con teleri dipinti. Dalle botteghe dei pittori poi spesso uscivano stendardi, paliotti, gonfaloni, bandiere, tutti realizzati sul medesimo supporto di tela di lino. Ma tali dipinti erano più facilmente sottoposti a usura rispetto a quelli su tavola.
La Nascita di Venere risulta tanto più eccezionale per la sua intrinseca qualità e per certe particolarità esecutive, evidenziate in particolare in occasione degli esami e degli studi effettuati in occasione del restauro del 1986-1987.
Il supporto è costituito da due panni cuciti insieme in senso orizzontale. Dopo essere stata dipinta la tela è stata inchiodata su una tavola di legno. Il pittore ha dipinto, sia pur grossolanamente, anche i bordi ripiegati lungo i bordi del piano ligneo. Tali bordi rimasti nascosti alla luce sotto la cornice, conservano il timbro coloristico originale.
Prima della stesura pittorica sulla tela è stata data a pennello una leggera “mestica”, cioè una mistura di colla animale e gesso, probabilmente a base di fine polvere alabastrina. Sulla mestica non è stata data l’“imprimitura”, ovvero la preparazione bianca a base di gesso sottile, così da permettere al gesso alabastrino traslucido di conferire ai colori un effetto straordinario di chiarore e leggerezza.
Quindi il pittore ha disteso il proprio disegno “a secco”, forse col carbone, ripassandolo poi con il pennello e il colore bruno liquido, in certi casi chiaroscurando anche ad acquerello. L’artista ha però variato certi dettagli del disegno in fase di esecuzione pittorico. Sono stati infatti notati i seguenti “pentimenti”: i capelli erano delineati anche a sinistra, ma si è preferito accentuare l’effetto di spinta impresso ad essi dal vento; piedi, mani e un occhio della dea sono stati ridisegnati; il collo del mantello è stato aggiunto
Nella campitura corrispondente agli incarnati non esiste la stesura verdolina (il cosiddetto “verdaccio” toscano), che invece il pittore è solito dare sulle tavole.
La tecnica pittorica adottata è una tempera ‘magra’, ovvero povera di olii e di sostanze agglutinanti. Nella stesura del colore, Botticelli ha dato sottili velature, utilizzando pigmenti molto diluiti con pennellate leggere che lasciano ben visibile il fondo. Tali velature hanno così da prodotto effetti diafani e trasparenti, ancora ben visibili per esempio nel cielo (realizzato a velature di azzurrite molto diluita in tempera a uovo), negli incarnati (in corrispondenza dei quali è rimasta ben visibile la trama della tela, tanto lo spessore del colore è sottile),nella conchiglia, con un effetto quasi opalescente. Una particolare velatura di verderame è stata stesa sulle parti vegetali e sull’acqua.
La profusione di dorature fanno presumere che la destinazione della tela fosse un ambiente particolarmente raffinato, ma forse anche oscuro. Tali dorature, date in forma lineare lungo i contorni o a tratteggio (per esempio nelle foglie e nei capelli), sono state applicate a pennello, a mordente e a missione (cioè applicando la foglia d’oro su un collante). Molte dorature a missione (nelle ali, nelle foglie, nei tronchi) furono aggiunte dopo che l’opera era stata posizionata con la sua cornice.

Il dipinto rappresenta Venere, nuda e in atto di nascondere seni e pube. Dopo aver solcato il mare in piedi sulla valva di una conchiglia, essa sta per giungere a terra. La composizione infatti rappresenta l’arrivo della dea al lido piuttosto che la sua nascita, come tradizionalmente si è ritenuto. In alto a sinistra due geni alati, un uomo e una donna, abbracciati e circondati da rose recise, sono i venti che soffiano e sospingono Venere nel suo viaggio. Il genio dal corpo femminile ha l’aspetto più pacato e sembra trattenere il compagno assai più impetuoso. Sulla terraferma attende l’arrivo di Venere una fanciulla con un abito bianco ornato da fiordalisi, con tralci di rose intrecciati in vita e una ghirlanda di mirto che incornicia lo scollo. La donna — di solito identificata nell’Ora della Primavera o in una delle tre Grazie — è pronta ad avvolgere la dea in un manto rosa trapunto da vari fiori, soprattutto margherite. Alle sue spalle si trovano alcuni alberi di solito identificati in melaranci, le cui fronde sono punteggiate d’oro. In primo piano, nel prato vi sono violette e sulla riva le canne o “tife”. Il mare ha l’aspetto di uno specchio d’acqua lacustre, per il colore, l’increspatura astratta della superficie, l’assenza di onde che lambiscono la riva erbosa.

Attribuzioni
Lo stile e il tipo di composizione sono stati sempre riconosciuti come perfettamente rispondenti alla maniera di Botticelli. Infatti il dipinto è stato sempre riferito a Botticelli sin dalle fonti cinquecentesche. Non sono noti però documenti coevi (come contratti, diari, registri di bottega) che attestino l’attribuzione.

Datazioni
Le proposte di datazione si basano su considerazione di carattere stilistico e si pongono dopo il soggiorno a Roma di Botticelli, impegnato nella cappella Sistina (1481-82). Tali datazioni dunque oscilla dal 1482 al 1485, anno in cui l’artista realizza la Pala Bardi per Santo Spirito (oggi nei musei di Berlino).

Interpretazioni
Come le altre composizioni allegoriche di Botticelli, anche la Nascita di Venere è stata oggetto di innumerevoli studi volti a individuare una corretta chiave interpretativa della composizione.
Fonti letterarie: sono stati indicati vari testi classici e umanistici come possibili fonti letterarie. Fra questi si ricordano in particolare: l’inno omerico a Venere, l’Metamorfosi di Ovidio (II, 27), le Stanze e l’epigramma dedicato a Venere Anadiomene scritti da Agnolo Poliziano (Lightbown 1978).
Fonti figurative: l’atteggiamento della dea rimanda al tipo antico della Venus pudica, rappresentato per esempio dalla Venere Capitolina dei Musei Capitolini a Roma rinvenuta nel 1670-1676 e dalla Venere Medici agli Uffizi a Firenze, documentata nel 1598 a Villa Medici a Roma. Anche se tali esemplari tanto celebri non sembrano noti al tempo di Botticelli, il tipo della Venere pudica era ben conosciuto anche precedentemente come attestano opere di Giovanni Pisano e di Masaccio (Bocci Pacini 1987). I due Geni alati risultano ispirati alla Tazza farnese la preziosa gemma augustea in calcedonio appartenente alle collezioni di Lorenzo il Magnifico (ora al Museo Archeologico Nazionale di Napoli) (Yuen 1969).
Soggetto: il soggetto è stato tradizionalmente riconosciuto come la nascita di Venere, anche se la critica odierna ha più volte notato che il quadro sembra piuttosto rappresentare l’arrivo della dea a Cipro.
Personaggi: mentre non sono sollevati dubbi sull’identità della figura di Venere, sono state avanzate varie proposte per gli altri personaggi. A sinistra i due Geni alati che soffiano aria dalle bocche, sono senz’altro due Venti: sembra molto probabile che la figura maschile sia Zefiro, che introduce con foga la primavera, mentre la figura femminile ammantata di verde che pare trattenerlo avvinghiandosi ad esso risulta difficile a riconoscere. Di solito viene identificata con Clori, sposa di Zefiro, oppure con Aura, ricordata nelle Stanze di Poliziano (Vasari 1568). Ma sono state anche ricordate altre coppie di figure sospese in arie che vanta una tradizione figurativa antica: Zefiro e Nebula, Noto e Nube, Zefiro e Iride (Bocci Pacini 1987). La fanciulla scalza ,che con il manto aperto sta aspettando Venere sulla riva, è stata identificata con una delle Horae al seguito di Venere, forse la Primavera (Lightbown 1978), oppure con una delle tre Grazie, che secondo il mito erano ornate di rose e mirto e tesserono il manto per la dea (Bocci Pacini 1987), o ancora con la dea della persuasione Peitho.
La vegetazione: gli alberi sulla destra sono stati identificati con melaranci o mala aurantia, detti anche mala medica per le loro proprietà terapeutiche. Per quest’ultimo appellativo vengono ritenuti allusivi alla stirpe medicea e ai suoi emblemi araldici, le palle dello stemma o “bisanti”. In primo piano le violette sarebbero simbolo di amore, mentre il frutto delle canne o “tife” potrebbe essere allusione del membro di Urano. Infatti secondo il mito, tale membro cadde in mare e fecondò la schiuma dei flutti da cui nacque Venere.
Significato: nonostante i vari contributi interpretativi è stata più volte notato il significato della Nascita di Venere rimane a tutt’oggi sfuggente. La proposta lettura che ha avuto più seguito, vede nel dipinto la rappresentazione della Humanitas, la virtù superiore incarnata nella sublime bellezza, nata dall’unione dello spirito con la materia, dell’idea con la natura, secondo i principi della filosofia neoplatonica che informavano la cultura fiorentina promossa dai cenacoli medicei (Warburg 1893; Gombrich 1945 e edizioni successive; Salvini 1958; Cheney 1985). Di recente è stato posto l’accento sul tema dell’approdo della dea al lido ombreggiato (Acidini Luchinat 2001): spinta da Zefiro, vento di ponente, Venere potrebbe essere giunta sulla costa toscana protetta dalle fronde di quegli agrumi, che sono uno dei più noti e riconosciuti simboli dei Medici; la dea dell’amore darà così inizio a un nuova era nella terra pacificata e resa fiorente dai Medici.

Villa di Castello (almeno dal 1550, fino almeno al 1761); Palazzo Vecchio, Guardaroba (1815); Uffizi (1815).
La Nascita di Venere è citata con certezza per la prima volta da Giorgio Vasari nella edizione delle Vite del 1550, in cui l’opera è ricordata nella villa di Castello che Cosimo I de’ Medici aveva ereditato dal padre Giovanni delle Bande Nere. Nell’inventario del 1598 la tela è documentata nella medesima collocazione, posta nella “Camera del Granduca terrena”, e lì rimase almeno fino al 1761, data dell’ultimo inventario della villa. Nessun documento precedente ricorda il dipinto, nemmeno gli elenchi dei beni di proprietà di Lorenzo e Giovanni di Pierfrancesco (Shearman 1975; Smith 1975), rispettivamente zio e padre di Giovanni delle Bande Nere, che comprarono la villa detta del Vivaio, in località Olmo nel popolo di San Michele a Castello nel 1477. Rimangono dunque incerte l’originaria collocazione della tela, il committente, la data e l’occasione della sua esecuzione. Per via del tutto indiziaria, la critica è stata spesso orientata ad attribuire la commissione a Lorenzo di Pierfrancesco e a ritenere villa di Castello il luogo di destinazione originaria dell’opera, come potrebbe far supporre anche l’uso raro — anche se non assente — della tela come supporto più appropriato a una residenza suburbana.
Portata a Palazzo Pitti, nel 1815 all’aprirsi della Restaurazione il dipinto botticelliano fu trasferito nella Guardaroba dietro espresso desiderio del granduca Ferdinando III di Lorena. Il direttore degli Uffizi, Giovanni Degli Alessandri però chiese e ottenne il quadro per i corridoi del proprio museo, dove nello stesso anno fu posta anche la Primavera. Nel 1922 sarebbe giunta anche la Pallade e il centauro.

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