Giorgio Vasari
1568
Descrizione l’apparato allestito nel secondo cortile di Palazzo Medici
Essendo poi stato morto dal detto Lorenzo il duca Alessandro e creato il duca Cosimo l’anno 1536, quando venne a marito la signora donna Leonora di Tolledo – donna nel vero rarissima e di così grande et incomparabile valore che può a qual sia più celebre e famosa nell’antiche storie senza contrasto aguagliarsi e per aventura preporsi, nelle nozze che si fecero a dì 27 di giugno l’anno 1539, fece Aristotile nel cortile grande del palazzo de’ Medici, dove è la fonte, un’altra scena che rappresentò Pisa, nella quale vinse sé stesso, sempre migliorando e variando: onde non è possibile mettere insieme mai né la più variata sorte di finestre e porte, né facciate di palazzi più bizzarre e capricciose, né strade o lontani che meglio sfuggano e facciano tutto quello che l’ordine vuole della prospettiva. Vi fece oltra di questo il campanile torto del Duomo, la cupola et il tempio tondo di S. Giovanni, con altre cose di quella città. Delle scale che fece in questa non dirò altro, né quanto rimanessero ingannati, per non parere di
dire il medesimo che s’è detto altre volte: dirò bene che questa, la quale mostrava salire da terra in su quel piano, era nel mezzo a otto facce e dalle bande quadra, con artifizio nella sua semplicità grandissimo, perché diede tanta grazia alla prospettiva di sopra, che non è possibile in quel genere veder meglio. Appresso ordinò con molto ingegno una lanterna di legname a uso d’arco dietro a tutti i casamenti, con un sole alto un braccio fatto con una palla di cristallo piena d’acqua stillata, dietro la quale erano due torchî accesi, che la facevano in modo risplendere che ella rendeva luminoso il cielo della scena e la prospettiva, in guisa che pareva veramente il sole vivo e naturale; e questo sole, dico, avendo intorno un ornamento di razzi d’oro che coprivano la cortina, era di mano in mano per via d’un arganetto che era tirato con sì fatt’ordine, che a principio della comedia pareva che si levasse il sole, che, salito infino al mezzo dell’arco, scendesse in guisa che al fine della comedia entrasse sotto e tramontasse. Compositore della comedia fu Anton Landi, gentiluomo fiorentino; e sopra gli’intermedii e la musica fu Giovan Batista Strozzi, allora giovane e di bellissimo ingegno. Ma perché dell’altre cose che adornarono questa comedia, gl’intermedii e le musiche, fu scritto allora a bastanza, non dirò altro se non chi furono coloro che fecero alcune pitture, bastando per ora sapere che l’altre cose condussero il detto Giovan Batista Strozzi, il Tribolo et Aristotile.
Erano sotto la scena della comedia le facciate dalle bande spartite in sei quadri dipinti, e grandi braccia otto l’uno e larghi 5, ciascuno de’ quali aveva intorno un ornamento largo un braccio e due terzi, il quale faceva fregiatura intorno et era scorniciato verso le pitture, facendo 4 tondi in croce con due motti latini per ciascuna storia, e nel resto erano imprese a proposito. Sopra girava un fregio di rovesci azurri a torno a torno, salvo che dove era la prospettiva; e sopra questo era un cielo pur di rovesci, che copriva tutto il cortile; nel quale fregio di rovesci, sopra ogni quadro di storia, era l’arme d’alcuna delle famiglie più illustri con le quali avevano avuto parentado la casa de’ Medici. Cominciandomi dunque dalle parte di levante a canto alla scena, nella prima storia, la quale era di mano di Francesco Ubertini detto il Bachiacca, era la tornata d’esilio del magnifico Cosimo de’ Medici: l’impresa erano due colombe sopra un ramo d’oro, e l’arme che era nel fregio era quella del duca Cosimo. Nell’altro, il quale era di mano del medesimo, era l’andata a Napoli del magnifico Lorenzo: l’impresa un pellicano, e l’arme quella del duca Lorenzo, cioè Medici e Savoia. Nel terzo quadro, stato dipinto da Pierfrancesco di Iacopo di Sandro, era la venuta di papa Leone X a Fiorenza, portato dai suoi cittadini sotto il baldacchino: l’impresa era un braccio ritto, e l’arme quella del duca Giuliano, cioè Medici e Savoia. Nel quarto quadro, di mano del medesimo, era Biegrassa presa dal signor Giovanni, che di quella si vedeva uscire vettorioso: l’impresa era il fulmine di Giove, e l’arme del fregio era quella del duca Alessandro, cioè Austria e Medici. Nel quinto, papa Clemente coronava in Bologna Carlo V: l’impresa era un serpe che si mordeva la coda, e l’arme era di Francia e Medici; e questa era di mano di Domenico Conti, discepolo d’Andrea del Sarto, il quale mostrò non valere molto, mancatogli l’aiuto d’alcuni giovani de’ quali pensava servirsi, perché tutti, i buoni e ‘ cattivi, erano in opera: onde fu riso di lui, che molto presumendosi, si era altre volte con poco giudizio riso d’altri. Nella sesta storia et ultima da quella banda era di mano del Bronzino la disputa che ebbono tra loro in Napoli e innanzi all’imperatore il duca Alessandro et i fuoriusciti fiorentini, col fiume Sebeto e molte figure; e questo fu bellissimo quadro e migliore di tutti gl’altri: l’impresa era una palma, e l’arme quella di Spagna. Dirimpetto alla tornata del magnifico Cosimo, cioè dall’altra banda, era il felicissimo natale del duca Cosimo: l’impresa era una fenice, e l’arme quella della città di Fiorenza, cioè un giglio rosso. A canto a questo era la creazione overo elezzione del medesimo alla degnità del ducato: l’impresa il caduceo di Mercurio, e nel fregio l’arme del castellano della fortezza; e questa storia, essendo stata disegnata da Francesco Salviati, perché ebbe a partirsi in que’ giorni di Fiorenza, fu finita eccellentemente da Carlo Portelli da Loro.
Nella terza erano i tre superbi oratori Campani cacciati del Senato romano per la loro temeraria dimanda, secondo che racconta Tito Livio nel ventesimo libro della sua Storia, i quali in questo luogo significavano tre cardinali venuti invano al duca Cosimo con animo di levarlo del governo: l’impresa era un cavallo alato, e l’arme quella de’ Salviati e Medici. Nell’altro era la presa di Monte Murlo: l’impresa un assiuolo egizzio sopra la testa di Pirro, e l’arme quella di casa Sforza e Medici; nella quale storia, che fu dipinta da Antonio di Donnino, pittore fiero nelle movenze, si vedeva nel lontano una scaramuccia di cavalli tanto bella, che quel quadro, di mano di persona riputata debole, riuscì molto migliore che l’opere d’alcuni altri che erano valentuomini solamente in openione. Nell’altro si vedeva il duca Cosimo essere investito dalla Maestà Cesarea di tutte l’insegne et imprese ducali: l’impresa era una pica con foglie d’alloro in bocca, e nel fregio era l’arme de’ Medici e di Tolledo; e questa era di mano di Battista Franco viniziano. Nell’ultimo di tutti questi quadri erano le nozze del medesimo duca Cosimo fatte in Napoli: l’impresa erano due cornici, simbolo antico delle nozze, e nel fregio era l’arme di don Petro di Tolledo viceré di Napoli; e questa, che era di mano del Bronzino, era fatta con tanta grazia, che superò, come la prima, tutte l’altre storie. Fu similmente ordinato dal medesimo Aristotile, sopra la loggia, un fregio con altre storiette et arme, che fu molto lodato e piacque a Sua Eccell[enza], che di tutto il remunerò largamente.